
08 Mar AL MUSICAL! AL MUSICAL!
Il 3 marzo è andato in scena l’ormai tradizionale musical delle terze delle scuole “Kolbe” e “Sant’Ambrogio”. Scopriamo cosa è stato questo musical per i ragazzi, con l’aiuto di un’insegnante che, insieme ai suoi colleghi, sin dalla prima edizione compone, progetta, lavora e infine trepida per i suoi ragazzi.
Al mattino 99 ragazzi entrano al teatro Condominio “Vittorio Gassman” di Gallarate.
Hanno fretta: da questa lunga giornata si aspettano divertimento, nuove amicizie e, infine, applausi che coroneranno un’esecuzione ben fatta, dopo mesi di prove per mettere in scena il remake del musical del 2008, tratto dal “Frankenstein” di M. Shelley e intitolato, come allora, Al mostro, al mostro!
Qualcuno dice che non sa cosa lo attrae di più: qualcosa di nuovo, che non conosce ancora e che perciò non sa dire. Qualsiasi cosa sia, spingono per entrare.
Dentro, però, è buio, sul palco soffuso di una luce rossastra alcuni tecnici in collegamento con la postazione della regia sono intenti a mettere a punto le luci e i microfoni.
Non c’è che da sedere e attendere, esercitare la pazienza: “Quando cominciamo?!”
Nel frattempo, chiacchiera libera e argomenti antichi come il mondo: “Alla C. piace il N.! Alla C. piace il N!”
Una breve visita didattica ai luoghi del teatro non risolve la noia dell’assistere alle prove tecniche; le ragazze fanno la prova dei fondotinta sulle mani. “Ma che ore sono?”
E la noia non risolve l’ansia, che persiste anche sotto forma di comportamenti un po’ sbruffoni e pose di sufficienza, che contrastano la richiesta di silenzio in sala per la prova microfoni.
Finalmente, a metà mattina, la coreografa chiama il primo balletto.
Si comincia a fare qualcosa. Il coro, posizionato in buca, ha ancora tempo di giocare alla morra cinese. Sul palco si susseguono i ballerini, i recitanti, gli acrobatici, i solisti, tutti attenti alle indicazioni dei diversi insegnanti; brevemente, velocemente, gruppo dopo gruppo: queste sono le posizioni, queste le distanze, queste le entrate, queste le uscite. I ragazzi ascoltano ed eseguono, l’atteggiamento è di chi vuole esserci, di chi vuole fare bene.
Scesi in platea, a turno, i diversi gruppi cominciano a reclamare il permesso di mangiare una merenda: invano. Oggi i tempi sono dettati dalle esigenze delle prove.
Una minoranza opta allora per una merenda clandestina, sostenuti da un’insegnante obiettrice di coscienza; i più, invece, sanno aspettare l’ok; in ogni caso dopo le ore tredici prevale la necessità del pranzo. Tutte le aspettative riguardo il musical sono passate in secondo piano (“Quale divertimento?!”), risvegliate momentaneamente dalla distribuzione delle magliette che riportano il logo di questo musical: mano che ghermisce, nera su fondo bianco per le ragazze e il contrario per i maschi.
Il pomeriggio è tutt’altra musica: si cominciano le prove vere, di tutte le scene di filato, in costume, precedute solo dall’assegnazione e occupazione dei camerini (o, meglio, okkupazione, a vedere lo stato dei medesimi di lì a poche ore).
Le prove sono istruttive: alcuni ragazzi scoprono com’è facile dimenticare le battute o i movimenti di scena; così i ballerini rischiano di incappare in un bell’attaccapanni d’epoca, sorto come un fungo, nel loro spazio di movimento, o di scivolare sui giornali rimasti a terra; altri ballerini scoprono a proprie spese com’è facile buscarsi una scheggia sotto il piede. Al termine della prova tutti i ragazzi, indistintamente, scoprono com’è pericoloso non saper tenere il silenzio nei camerini o dietro le quinte quando la preside pone un ultimatum: o lo imparano da quel momento, o gli insegnanti se ne andranno in massa, lasciandoli soli a sostenere l’intero spettacolo.
Funzionerà.
Ma forse per i maschi c’è qualcosa di più difficile che tenere il silenzio, ed è sopportare il trucco, a volte eseguito maldestramente, da compagne e professoresse. All’inizio non vorrebbero, poi fanno a gara a sedersi sulle sedie e sottoporsi almeno a una passata di terra sul viso e di matita nera agli occhi. Fa eccezione chi interpreta il mostro, che viene truccato da mani esperte e ne esce con la testa pelata e col viso ripartito in due zone, una verde e una bianca, ben separate da una vistosa cicatrice.
Non c’è tempo per fare di più, è ora di prepararsi per il primo spettacolo: i ragazzi vengono chiamati insieme a tutti gli insegnanti sul palcoscenico dove, dopo un rapido controllo – no chewing-gum, no bigiotteria varia – vengono guidati dalla preside e dalla regista a concentrarsi e a ritrovare le giuste motivazioni. Hanno in mente la loro prima entrata? Sanno dove hanno predisposto i loro oggetti di scena? Lo spettacolo passerà in un lampo: va vissuto minuto per minuto. Ricordano quale storia presentano al pubblico? Quali importanti tematiche? Quali desideri nutrivano in cuore la mattina?
Ci stanno pensando davvero, sono davvero silenziosi.
Poi ciascuno si prepara alla propria postazione iniziale: il coro resta sul palco per la scena del temporale; il personaggio di M. Shelley, i solisti e i mimi bianchi dietro le quinte; gli altri nei camerini, sotto la sorveglianza ferrea e generosa dei professori che in tal modo non godranno dello spettacolo. Si va. Buio in sala.
Sono passate le venti e trenta; i ragazzi sono nuovamente radunati per prepararsi al secondo spettacolo. La regista dice che sono andati bene, che non devono perdere la concentrazione (come è successo prima fra il primo e il secondo tempo). La preside ripete raccomandazioni e incoraggiamenti. L’altro preside ancora filma: non andrà perso neanche un pezzetto di questo lavoro.
I ragazzi, seduti a terra o sui praticabili, ora tacciono più per stanchezza che per convinzione. Si vedono piedi nudi, con o senza schegge, e intorno scarpe variamente appaiate; una ragazza tormenta una calza attorcigliandola fra le mani: neanche la stanchezza vince l’ansia; un ragazzo, sotto il ciuffo già sfuggito alla presa del gel, mostra rotondi occhi imploranti (riposo?); l’interprete di Elisabeth Lavenza confessa umilmente di essere a corto di energie: “Prof, sono in piedi dalle cinque e mezza…”
Sono stanchi, ma sono più forti di quando hanno cominciato: non si distingue più la “Sant’Ambrogio” dalla “Kolbe”; non si distinguono i protagonisti, chi ha avuto molte parti e chi una sola; niente in loro farebbe distinguere chi ha un alto profitto scolastico, neanche in condotta, dagli altri; nulla di tutto ciò, ma un popolo in cui ciascuno sta cercando, aiutato dal vicino, di spendere al meglio i propri talenti e sta aiutando il vicino a fare altrettanto.
Forse il momento più luminoso di questo musical non sarà negli applausi finali, nei complimenti (numerosi e meritati) che riceveranno, o nella luce di orgoglio che vedranno brillare negli occhi dei familiari quando, ormai quasi notte, verranno riaccompagnati a casa.
Tra poco questo popolo stanco mostrerà di avere fondati motivi di entrare in scena per fare meglio di prima, di scoprirsi più sciolto e sereno e appagato. Ciascuno di loro avrà trovato un pezzo nuovo di se stesso.
E allora forza, sono le ventidue passate, ma ancora dietro le quinte una ragazzina, per essere pronta al successivo balletto, distende la gamba verso l’alto, portando il piede all’altezza dell’orecchio, e i giudici incedono in modo tale che la Giustizia stessa sembra apparsa sul palco, e il mostro si strugge per quella benedetta nota da prendere del “non so” mentre gli altri 98 incrociano le dita.
Il musical, bellissimo, finisce in gloria.
L’augurio è che il popolo continui a camminare.
(prof. Agnese Simonetto)